Mario Delpini Arcivescovo di Milano


Comunità Pastorale San Grato, Nova Milanese

Venerdì, 03 Aprile 2020

Carissimi,      

domenica è la festa delle Palme, questa domenica era sempre una festa perché muoveva tanta gente, la tradizione di avere l’ulivo benedetto nelle proprie abitazioni è una tradizione che si perde nel tempo e che è ancora molto sentita, l’ulivo non si teneva solo in casa, lo si metteva nella stalla, e lo si metteva a forma di croce quando venivano temporali cattivi.

Ma per noi cristiani oggi la domenica delle palme ci immette in quella che è chiamata la settimana autentica, la settimana Santa, perché si apre con le Palme, poi il Giovedì Santo con la S. Messa Crismale, il Venerdì con la Morte del Signore, e il Sabato Sera con la sua Resurrezione e finalmente la domenica di Pasqua.

Quest’anno non sarà una festa come le altre, come quella degli altri anni, quest’anno la vedremo in televisione (anche per noi canale 687 del digitale terrestre), celebreremo ognuno nella propria casa con i suoi figli, faremo come gli ebrei che avevano il compito di raccontare la Pasqua ai propri figli, faremo così anche noi.

Cari fratelli e sorelle, non perdete l’occasione di raccontare la Pasqua, i più anziani raccontino come era la Pasqua della loro fanciullezza della loro giovinezza, i più giovani raccontino la loro Pasqua, in modo che i bambini possano godere non di una celebrazione ma di un racconto del papà della mamma del nonno o della nonna.

Ma in questi giorni vorrei raggiungervi anche con un messaggio del nostro Arcivescovo Mario, un messaggio di speranza per questa Pasqua intitolato così:

“La potenza della sua risurrezione”

Carissimi, avevo immaginato un’altra Pasqua e anche quanto ho scritto per il tempo pasquale proponeva attenzioni più consuete. Mi sembra giusto riproporre lo stesso testo inserito nella proposta pastorale La situazione è occasione, anche se si rivela fuori contesto. Desidero però accompagnarlo condividendo qualche riflessione per vivere la Pasqua di quest’anno, segnata dal drammatico impatto dell’epidemia e da tante forme di testimonianza di fede, di speranza, di generosità, e da tante forme di angoscia, di paura, di smarrimento.

Non pensavamo che la morte fosse così vicina

Noi, vivi, sani, impegnati in molte cose siamo abituati a pensare alla morte come a un evento così lontano, così estraneo, così riservato ad altri: ci sembra persino un’espressione di cattivo gusto quando si insinua l’idea che possa riguardare anche noi, e proprio adesso. Io non so quante siano le persone che muoiono a Milano nei tempi “normali”. Adesso però i numeri impressionano, anche perché tra quei numeri c’è sempre qualcuno che conosco. La morte è diventata vicina, interessa le persone che mi sono care, i confratelli, le presenze quotidiane negli ambienti del lavoro, del riposo.

Ogni volta che si parla di un ricovero, ogni volta che si dice: “si è aggravato” si è subito indotti a pensare che l’esito sia fatale, tanto la morte è vicina, visita ogni parte della città e del Paese. E ogni volta che si avverte un malessere, una tose che non guarisce, un brivido di paura e di smarrimento percorre la schiena.

La morte vicina suscita domande che sono più ferite che questioni da discutere. I conti aperti, i lavori incompiuti, gli affetti sospesi insinuano una specie di terrore: “Si, lo so che viene la morte, ma non adesso, per favore! Non adesso, ti prego; non adesso!” ma si intuisce che non basta avere un compito da svolgere per convincere la morte a passare oltre il numero civico di casa mia. La morte è così vicina e non ci pensavamo. Rivolgerò più spesso lo sguardo al crocifisso appeso in sala e con più intenso pensiero.

Non pensavamo che fosse così difficile riconoscere la presenza del Signore risorto

La città secolare da tempo ha decretato l’assenza di Dio o, quanto meno, la sua esclusione dalla vita pubblica; ma per i devoti la presenza di Dio nella vita e nella città era una sorta di ovvietà. In ogni situazione era spontaneo riconoscere la presenza reale nell’eucarestia, l’origine di ogni male e di ogni bene dalla volontà di Dio, la conferma della sua provvidenza, l’aspettativa della sua giustizia nel premio e nel castigo. In questo tempo è molto cambiato l’atteggiamento verso il religioso: ne è nata una qualche nostalgia per chi non ci pensava più e persino quelli che non sanno dove siano le chiese si sono interessati per sapere se siano aperte o chiuse. Per i devoti però quello che era ovvio è diventato problematico. L’antica domanda che mette alla prova il Signore è rinata spontanea: ”Il Signore è in mezzo a noi si o no?” (Es 17,7). C’è un bisogno di segni che lo dimostrino, un’invocazione di esposizioni, processioni, consacrazioni: dicono un desiderio sincero di essere confermati nella fede da una evidenza, da un intervento incontrovertibile.

I segni della presenza del Risorto, cioè le ferite subite per la sua fedeltà nell’amore, risultano inadeguati all’attesa di una benedizione, di una protezione che dovrebbe mettere al sicuro i suoi fedeli. L’esito è che suonano stonate le certezze della città secolare che si costruiva orgogliosa e vincente a prescindere da Dio. E risultano più fragili le certezze dei devoti che devono constatare che “vi è una sorte unica per tutti: per il giusto e per il malvagio” (Qo 9,2).

“perché allora ho cercato d’essere saggio? Dov’è il vantaggio?” (Qo 2,15).

Non pensavamo che fosse così difficile riconoscere la presenza del Risorto, riconoscere la sua potenza che salva per vie che le aspettative umane non possono prescrivere, lasciarsi avvolgere dalla sua gloria, così diversa da come la immaginano gli umani. Siamo chiamati a entrare con fede più semplice e più sapiente nella promessa di Gesù: “in verità, in verità io vi dico: chi crede ha la vita eterna” (Gv 6,47), per capire meglio la rivelazione: “Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo” (Gv 17,3)

Non pensavamo che fosse così necessario celebrare insieme i santi misteri

“Andare a messa”, il rito della domenica, è sembrato per decenni una buona abitudine facoltativa, dopo la fine di un cristianesimo governato da precetti e minacce. Una buona abitudine da riservare a qualche festa solenne, a qualche rito di famiglia, a qualche domenica insieme per accontentare il bambino. Una buona abitudine in concorrenza con altre: la visita alla nonna, il corso di sci, le occasioni del centro commerciale, le partite di campionato

Il richiamo della nonna o del papà: “Sei andato a messa?” è, tutto sommato, un fastidio sopportabile, inefficace e, in sostanza, rassegnato. Nelle discussioni in classe o in ufficio sembra quasi un segno di maturità e di spirito critico professare: “Si, sono credente, ma a modo mio, penso con la mia testa; si credente e non praticante”. Quando le celebrazioni sono impedite, quando sono state sostituite da trasmissioni televisive, quando ogni prete ha dovuto inventarsi un qualche modo virtuale per entrare nelle case, per far sentire un segno di prossimità e di premura pastorale, quando catechisti e catechiste, educatori e ministri straordinari hanno raggiunto i “loro ragazzi”, i “loro malati” tramite il cellulare, i credenti hanno percepito che mancava la cosa più importante. Si, sono gradite la premura, la parola buona, la frase del Vangelo; si, aiuta la proposta di non perdere tempo, di rendersi utili in casa e dove si può. Si, tutto vero. ma trovarsi per la celebrazione della messa, cantare, pregare, stringere le mani amiche nel segno della pace, ricevere la comunione è tutt’altro. Di questo sentiamo la mancanza. Quando abbiamo fame, non potremo ma sfamarci guardando una fotografia del pane. Quando siamo sospesi sull’abisso del nulla, l’espressione intelligente “credente ma a modo mio, credente ma non praticante” suona ridicola, un divertimento da salotto, impropria là dove per attraversare la tempesta abbiamo bisogno di una presenza affidabile, di un abbraccio, di una comunione reale con Gesù, per essere nella vita di Dio. Niente di meno.

Poter “andare a messa” sarebbe il segno che è tornata la normalità non solo nella libertà di movimento, ma nella convinzione che non si tratta di buone abitudini, ma di una questione di vita e di morte. Il pane della vita non è infatti una bella frase, ma la rivelazione che senza Gesù non possiamo fare niente: le buone idee, la buona educazione, i buoni propositi sono tutte cose importanti. ma abbiamo bisogno di una parola che illumini il nostro passo, di un credere che sia vivere della relazione decisiva con Dio, di uno spezzare il pane della vita per non morire in eterno. Abbiamo bisogno di diventare un solo corpo e un solo spirito spezzando l’unico pane. Se in questo tempo in casa, abbiamo provato l’emozione di pregare insieme in casa, abbiamo imparato che è possibile, che unisce, che non esaudisce il desiderio di incontrare il Signore e anzi fa crescere il desiderio di “andare a messa”. Si deve raccomandare che nella “chiesa domestica” si conservino sempre i riti della preghiera e che il ritrovarsi in casa aiuti a sentirsi parte della grande Chiesa che ci raduna da tutte le genti.

Non pensavamo che fosse così necessaria la resurrezione per la nostra speranza

Nel linguaggio comune la speranza si è banalizzata a significare un’aspettativa fondata su previsioni più o meno attendibili, di cui si è, però, sentito parlare da qualche titolo sbirciato sfogliando pagine web. “Speriamo che domani sia bel tempo; speriamo che piova al momento giusto e che la vendemmia sia abbondante; speriamo di vincere il concorso e chiudere il contratto…”

Anzi, di speranza è meglio che parlino i poveracci. Le persone serie elaborano progetti, confrontano risorse, mettono in bilancio anche la voce imprevisti, perché è ragionevole aver tutto sotto controllo. Si danno da fare, non si aspettano niente da nessuno, sono convinte che se vuoi qualche cosa devi conquistartelo. Anche le persone serie dicono talvolta “Speriamo” e incrociano le dita: è più una scaramanzia che una speranza.

ma quando irrompe il nemico che blocca tutto, che paralizza la città, che entra in casa con quella febbre che non vuol passare, allora le certezze vacillano, e il verdetto del termometro diventa più importante dell’indice della Borsa. La percezione del pericolo estremo costringe a una visione diversa delle cose e a una verifica più drammatica di quello che possiamo sperare. Nella vita cristiana rassicurata dalla buona salute, da un certo benessere, dalla “solita storia” i temi più importanti sono le raccomandazioni di opere buone, di buoni sentimenti, di fedeltà agli impegni, di pensieri ortodossi. ma quando si intuisce che qualcuno in casa deve affrontare il pericolo estremo, allora l’unica roccia alla quale appoggiarsi può essere solo chi ha vinto la morte. “Ma se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati. Perciò anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti. Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini” (1Cor 15,17-19).

Buona Pasqua!

In conclusione desidero che giunga a tutti l’augurio per la santa Pasqua di quest’anno. Siamo costretti a una celebrazione che assomiglia più alla prima Pasqua che a quelle solenni, festose, gloriose alle quali siamo abituati. La nostra Pasqua, vissuta più in casa che in chiesa, è la cena secondo Giovanni: i suoi segni espressivi sono la lavanda dei piedi, la rivelazione intenza agli amici dei pensieri più profondi, la preghiera più accorata al Padre. La nostra Pasqua quest’anno rivive quella sera: “La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: “Pace a voi!” (Gv 20,19)

Incomincia così una storia nuova.

Pace a voi! Buona Pasqua.

                                                                                                  Mario Delpini 

                                                                                                    Arcivescovo

 



Privacy Policy | Cookie Policy